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Temere la Propria Ombra? Il Lato oscuro della Forza

IV Tema – Temere la propria Ombra: il lato Oscuro della Forza?

di Salvatore Rotondi

Psicologia riflessioni sulle prigioni della mente…

IV Tema – Temere la propria Ombra: il lato Oscuro della Forza?
Il mito della caverna di Platone è uno dei più conosciuti tra i miti del filosofo ateniese. Il mito è
raccontato all’inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a), dove il filosofo immagina dei prigionieri incatenati, nelle profondità di una caverna dalla loro nascita, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro. L’unica cosa che questi uomini posso vedere sono le ombre proiettate su di un muretto dalle forme degli oggetti che i loro presunti aguzzini utilizzano per attirare la loro attenzione. Platone ora suppone che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l’uscita della caverna: cosa succede a quest’uomo? I suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del sole ed egli proverebbe
dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre. L’uomo cioè si rivolgerebbe, sempre e comunque, verso qualcosa che ritiene essere certo e conosciuto: meglio una sofferenza certa che una incerta e sulla quale non possiamo sapere minimamente come rapportarci.
Sono passati millenni e, per l’essere umano, sembra quasi non esser passato neanche un giorno dalla formulazione di questo mito platonico che, nei fatti, “esternalizza” nella metaforica Caverna il più grande problema dell’uomo moderno: l’antro psichico nel quale ci troviamo ad incatenare i nostri pensieri o nel quale essi vengono incatenati dalla forza soverchiante del pensiero sociale comune.
I pensieri stessi(e con questo termine non mi riferisco solo alle cognizioni ma soprattutto alle emozioni), infatti, possono considerarsi come “ombre” rispetto agli “oggetti” reali. Ma quali sono questi oggetti reali? Anche la fisica, con il principio di indeterminazione di Heisemberg, ci insegna che l’oggetto è solo quando l’osservatore pone la sua attenzione su di esso. Pertanto, potremmo sostenere facilmente (come hanno fatto anche i teorici della Gestalt) che l’oggetto è il nostro entrare in relazione con esso e con tutti gli altri osservatori capaci di coglierne l’esistenza. Da questo punto di vista, affrontare le “ombre” della nostra mentre rappresenterebbe allora la capacità di guardare, in piena luce, la natura delle relazioni che viviamo: l’unico vero viatico verso una consapevole libertà dalle catene delle forme oggettuali predefinite.
Seguendo questo filo logico l’Ombra, la nostra ombra così intesa, ci racconta l’altro lato della nostra Forza esistenziale, l’oscura e rassicurante certezza indiretta che, da qualche parte, la nostra Vera Forza esiste, anche se nascosta alla nostra consapevolezza. In tal senso mi vengono in mente due riferimenti artistici: Peter Pan che insegue, disperato, la propria ombra per fondersi con lei e, così facendo, incontra Wendy; il vampiro Nosferatu di Murnau (1922) che, non potendo proiettare la propria ombra perché sprovvisto dell’umana luce, si manifesta esso stesso sotto forma di ombra in alcuni fotogrammi del famoso ed omonimo film.
Fondersi con i propri pensieri, per renderli carne e sangue, o essere solo pensiero perché oramai si è persa la propria umanità: se temute e non elaborate, comprese nel loro significato, queste potrebbero essere le strade sulle quali si incamminano le persone quando poi si ritrovano a vivere relazioni veramente pericolose e con risvolti giuridici inevitabili.

II

Per lo psichiatra e psicologo Carl Gustav Jung, l’ombra individuale è d’altronde una componente della personalità, il lato rimosso del nostro percorso di crescita in rapporto al campo etico-morale dell’ambiente di vita, “il fratello oscuro”, ovvero tutti quei “difetti” (o presunti tali) che non ammettiamo di avere perché inaccettabili alla luce della coscienza. A questa ombra, però, Jung ne affianca un’altra, ovvero una collettiva. Quest’ultima è difatti legata all’universo degli archetipi, ovvero le idee innate e predeterminate dell’inconscio umano, il mondo numinoso delle idee platoniche. In particolare Jung ne individua due di archetipi per noi molto interessanti: l’Animus (ovvero l’archetipo maschile che risiede nell’inconscio femminile) e l’Anima (l’archetipo femminile che risiede nell’inconscio maschile). Quindi, in ognuno di noi, indipendentemente dal genere di appartenenza, convivono una parte maschile e una parte femminile, spesso non in equilibrio fra
loro. Cosa accade quando tali parti non sono in equilibrio? Proiettiamo ad esempio sul partner, ma anche su amici e conoscenti, la parte non manifesta. Questo meccanismo, secondo Jung, ci inducecosì a scegliere partner di un certo tipo, magari sempre uguali, per compensare le caratteristiche che vorremmo integrare in noi stessi per essere finalmente completi. Come uscire allora da tale circolo proiettivo di ombre potenzialmente pericolose? Sempre secondo Jung dovremmo riconoscere l’archetipo mancante, iniziare a dialogare (alcune culture utilizzano il termine “danzare” che io condivido) con esso in quanto fonte stessa della nostra Forza vitale, onde cercare di integrarlo in noi e consapevolizzare il senso stesso dell’esistenza della nostra Ombra, il rappresentante psichico delle nostre più intime potenzialità inespresse.
Comprendere le nostre Ombre, smettendo di temerne l’influenza inconscia che esse esercitano sulle nostre scelte di vita e sulle relazioni che stringiamo, potrebbe aiutarci ad uscire dalla paura di ciò che non conosciamo, del totalmente Altro da noi stessi, e a capire che i “difetti” altrui, specialmente quelli che ci irritano maggiormente, appartengono in realtà anche alla nostra stessa interiorità.
Quest’ultima, di fondo, chiede solo ed esclusivamente di essere riconosciuta, di essere amata, per poter riconsegnare all’individuo la libertà di vivere pienamente se stesso con gli altri e senza che questi ultimi divengano a noi indispensabili come ricettacolo delle nostre proiezioni.
All’articolo si allegano due immagini:

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