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Psicologia: Stanchezza o Depressione Relazionale?

Psicologia: Stanchezza o Depressione Relazionale?

di Salvatore Rotondi

Nessuno di voi ha mai sentito parlare di Neet o Hikikomori in televisione, specialmente quanto si parla delle nuove generazioni?

Neet e Hikikomori nuove figure della società moderna e del mal di vivere delle società ricche. In particolare il secondo termine, tratto dal giapponese, significa letteralmente “stare in disparte, isolarsi”, usato quindi per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento delle proprie attività.

Quando si parla di queste persone, d’altronde, si fa quasi sempre riferimento al loro isolamento fisico (dal quale escono attraverso l’universo del digitale) oppure a quello mentale (con il calo degli interessi, dell’umore, dell’stima di sé, etc.). Alcuni professionisti della salute psico-fisica, poi, tendono a collegare tali problematiche con i ritmi frenetici della società odierna e con le sue richieste sempre più spersonalizzanti nonostante, paradossalmente, essa sia fondata sulla condivisione di informazioni attraverso network sociali virtuali. L’individuo, insomma, sembra sempre più omologato e riconoscibile attraverso standard di personalità definiti (i cosiddetti “profiling” tanto cari agli ambiti criminologici). Quali sono le conseguenze di tutto questo? A volte, esse si manifestano attraverso disturbi come la distimia o il disturbo evitante di personalità.

In primis, la distimia è un disturbo del tono dell’umore, ovvero una forma lieve di depressione, che compromette le relazioni sociali e le attività connesse, mantenendo altresì indebolite le capacità di reazione individuali. Ad essa, spesso, vengono associate l’abuso e/o la dipendenza da sostanze psicoattive (es. Alcolismo), disturbi d’ansia, disturbi somatoformi, i disturbi alimentari, i disturbi di
personalità, depressione e tendenze suicidarie. Tutto, per il distimico, viene fatto con sforzo notevole, anche le cose più comuni, e con un profondo senso di nullità. Difatti, il modo di porsi è il più delle volte cupo e triste, mentre le difficoltà quotidiane sono giudicate talmente insormontabili che provocano sentimenti di stizza e rabbia negli altri; il distimico, così, è valutato come il peggiore dei pessimisti poiché sembra assumere volontariamente tale atteggiamento e per di più secondo motivazioni che non vuole esprimere. Si avvia così una dinamica che rafforza in tali soggetti un basso senso del valore del proprio Sé, una generale insicurezza ed auto-percezione negativa la cui
conseguenza è un progressivo accrescimento delle sensazioni di sconforto e della introversione.

l disturbo evitante di personalità (DEP), invece, è un vero e proprio disturbo di personalità nel quale l’autovalutazione dell’individuo è ridotta ai minimi termini. L’individuo si sente profondamente inadeguato alla vita sociale e relazionale in genere, risponde negativamente alle critiche ed alla disapprovazione altrui, dalla quale sfugge escludendosi dalle attività con gli altri (non ha amici, rinunciando alla carriera in ambito lavorativo, ma mantengono strette relazioni abituali con i propri familiari più stretti) e vivendo in modo ritirato; il ritiro sociale, seppur conduce ad una esistenza priva di stimoli, triste, con un visibile senso di vuoto e, a volte, quasi senza senso, evita quindi alla
persona di esporsi e di vivere il malessere dell’inferiorità e del senso di inadeguatezza. Tuttavia, queste persone desiderano fortemente istaurare delle relazioni, anche intime, dove condividere esperienze ed interessi, anche se tale bisogno resta spesso inespresso. Ma la difficoltà a vivere l’imbarazzo o l’umiliazione per l’essere quasi sempre impacciati li induce ad evitare il confronto, vivendo un estremo malessere con conseguente senso di vuoto e/o esclusione.

La vita degli altri viene così osservata come un film in cui loro sono spettatori passivi, nascosti, mai visti poiché di poco valore e con quasi nessuna attrattiva per l’altro; si sentono allora incapaci nell’approccio e nel mantenere un discorso, hanno l’idea di non avere nulla di interessante da proporre agli altri. Per poter poi vivere sensazioni gratificanti, anche se momentanee, coltivano interessi ed attività
solitarie (es. musica, lettura, chat) che non implicano necessariamente un contatto con gli altri; in alcuni casi ricorrono anche all’uso di sostanze (in particolare dell’alcool) per sedare il malessere interiore ritagliandosi così una parentesi di piacere virtuale. Talvolta è possibile che questo stile di vita povera di stimoli, monotona contribuisca all’insorgenza di un quadro depressivo. Qualora, infine, riuscissero a stabilire una relazione, in genere, le persone con DEP tendono ad assumere un atteggiamento sottomesso per il timore di perderla e di ritornare ad essere soli; si attaccano, quindi, con tenacia all’altra persona assecondandola per evitare il rifiuto temuto. Con il passare del tempo, tuttavia, tale situazione di costrizione può indurre a reazioni di rabbia a volte non sempre controllate quando devono affrontare le difficoltà con il proprio partner.

Tale tipo di disturbo è spesso anticipato da fasi transitorie, espresse attraverso disturbi d’ansia o dalla depressione e legate alle
diverse circostanze di vita. Esso, comunque, si differenzia da quello schizoide di personalità (nel quale si preferisce profondamente la solitudine e si esprime una totale indifferenza all’accettazione o rifiuto altrui), dalla fobia sociale (caratterizzato da specifiche paure correlate alle prestazioni sociali e da uno stato ansioso pervasivo nelle attività svolte), il disturbo dipendente di personalità (con una alta paura prevaricante di essere abbandonato e non amato), il disturbo narcisistico di personalità (nel quale ci si aspetta dagli altri conferma della propria grandezza e unicità), il disturbo paranoideo di personalità (dove il giudizio degli altri, così come il loro generico pensiero sul
soggetto, è vissuto come una vera e propria minaccia alla integrità del proprio Sé).

Quello che abbiamo potuto leggere sopra, spesso, potrebbe provocare piccoli/grandi turbamenti (in chi tende a conoscere attraverso processi di identificazione) e/o uno strano senso di sollievo (per tutti coloro che possono pensare di aver individuato il proprio problema oppure di sentire di non rientrare nelle suddette categorie): è questo l’effetto dei processi di “profiling”. Niente, però, può dirci concretamente Noi chi siamo e quale è il nostro Posto in questo Mondo, il Senso della nostra Esistenza. Questa è la cosa che più ci spaventa. L’affannosa ricerca di dare una risposta a tali domande produce stanchezza; essa, come la stessa depressione in ambito evolutivo e psicoanalitico, non è il male ma il Tempo che concediamo a noi stessi per riflettere, per sviluppare un pensiero sull’esperienza, è tornare ad agire per rendere concreta la nostra Vita, in modo pienamente consapevole e soddisfacente. Possiamo in conclusione affermare, allora, che la Stanchezza, quella vera, non sarà Mai nemica del Benessere e della Vita sociale, sempre che quest’ultima venga vissuta nella totale Sincerità (nella gioia come nel dolore) del nostro più intimo Sé.

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